Questo racconto lo scrisse anni fa un amico, ormai ci siamo persi, ma la sensibilità del suo scritto è una rara perla.
Brakky sicuramente sa o consce l'autore.
Marco da Cesenatico
Quello della bici.
Scaricava la sua forza dalla testa ai pedali, amplificandone il gesto con la potenza del cuore.
E dentro era divorato da cose di cui molti oggi parlano, come se sapessero le cose che ci sono dietro allo sguardo di un uomo, o di una donna.
Lo abbiamo visto in tanti a volare le montagne, attaccare in salita a frantumar tornanti e avversari, sbrecciarsi a sangue la carne cadendo in discesa e poi ripartire.
Ti infiammava dentro anche se il ciclismo non lo seguivi da vicino; rimanevi incollato davanti al video.
E pigliavi fuoco.
Non potevi scansarti da quella smorfia della bocca, da quel salire in salita che mordeva l'aria e se la risputava attraverso i pedali, tre metri più avanti.
Quando scagliava in terra il cappellino era roba che ti entrava dentro, ne sentivi il fragore anche se eri seduto in poltrona, o ad una scrivania o a un tavolo del bar.
Per gli avversari era il guanto della sfida.
E Marco da Cesenatico, quello della bici, figlio di Romagna era diventato Pantani.
Icona, mito del ciclismo moderno.
Irraggiungibile.
Roba da altri tempi, al mondo del ciclismo non gli pareva vero.
E nemmeno agli sponsor.
Il resto è storia, da giugno 99 a tutto il resto.
Io non so niente e non sono nessuno, ma sono tre giorni che mi chiedo perchè c'ho il nodo alla gola.
Credo che lui si sentisse i suoi risultati, Pantani era Pantani solo se vinceva, se sbriciolava salite dolomitiche o pireneiche quasi a renderle innocue per se e fatali per gli avversari.
Pantani doveva vincere, doveva rialzarsi, sempre e comunque.
Questo si aspettava da lui.
Pantani ha detto sì, Marco da Cesenatico ha detto no.
Cortocircuito mentale ed emotivo.
E ha reagito come ha reagito.
Scaraventando il cappellino in terra, nell'attacco finale e lentissimo contro se stesso.
Penso che Pantani avesse il cuore gentile, quello generoso. quello nobile, quello a cui "l'amore ratto s'apprende".
E' questo non serve troppo nel modo dello sport moderno, dove il secondo è il primo dei perdenti.
E non serve nemmeno molto nel mondo che c'è intorno, dove o sei un vincente o, di converso, sei un perdente.
E questo modo di vedere le cose uccide, lentamente, migliaia di "Pantani" ogni giorno. Gli "uomini-performance".
Che lentamente muoiono.
Non condanno e non difendo Pantani, perchè non mi sento di giudicarlo.
Penso che abbia fatto imprese formidabili in cui l'aiuto del doping sia stato meno che marginale.
Anche se, va detto , c'era; e come lui tanti, forse tutti.
Penso che la potenza che lo portava a vincere se la sia, ad un certo punto, scagliata contro.
Non lo ammiro per questo, ma lo comprendo, perdio se lo comprendo.
E non giudico le sue vicende di cocaina, che non accetto, ma mi rendo conto della disperazione che viveva.
Potente, autentica, disperata. Devastante.
Credo che questa storia sia una gran brutta storia, eppure tremendamente umana.
Storia del moderno vivere, storia dell'antico male di vivere.
Ognuno lo ricorda come vuole, chi con le mani basse sul manubrio ad azzannare la salita, chi con le braccia al cielo su di un traguardo in montagna, diluviato di pioggia.
Immagini tra il rosa, il giallo e il nero dei guanti o delle mezze maniche anti freddo.
A me viene da ricordarlo che riparte dopo una caduta, con la carne viva della coscia che si vede dal pantaloncino strappato.
E, avvicinandosi al traguardo, un suo compagno di squadra lo protegge e con la mano lo sospinge.
Con delicatezza , con rispetto.
Mai cosi' potentemente umano, mai così divinamente umano.
Poi è arrivato il momento in cui" Te sei te e alle fine non sei più te."
Sono parole sue.
Che sia stato suicidio o un malore conta meno di zero.
In un giorno qualsiasi, dopo il 5 giugno 99, aveva scaraventato il cappellino in terra, attaccando Pantani.
E non ha sbagliato il rapporto.
Poi Pantani in un giorno che è una beffa, il 14 Febbraio, è morto.
E si è portato via anche il ragazzo da Cesenatico, quella della bici.
Quello che si chiamava Marco.
Quello che non gliene fregava nulla di vincere, quello che, adesso, gli bastava di vivere.
Con profondo rispetto.
Air